Non l’amore del potere ma il potere dell’amore

 

 

L’immagine della Pietà, cioè Maria che accoglie tra le braccia o sul grembo il corpo di Gesù distaccato dalla croce, manifesta con grande efficacia la consapevolezza della totale partecipazione della Vergine al cammino del Figlio: fino in fondo, fino alla morte, fino alla gloria. In quell’immagine Maria è contemplata nel mistero della Pasqua. Come per Gesù, anche per Maria e per ciascuno di noi il «sì» offerto a Dio diventa completo nel momento della croce. La Pasqua, però, non è solo umiliazione, abbassamento, sofferenza e morte. Essa si apre alla speranza e alla gioia della risurrezione e della vita nuova: «Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare» (I Pt 4, 13).

L’arte figurativa, come è noto, si è interessata con entusiasmo alla persona di Maria e alla missione affidatole da Dio nella storia della salvezza e ha prodotto opere che, per numero e qualità, sono tra le più celebri del mondo. Anche il tema della partecipazione della Vergine alla croce del Figlio ha trovato risonanze di straordinaria bellezza e di intensa forza comunicativa: un illustre esemplare in questa ottica è la Pietà di Michelangelo Buonarroti custodita nella basilica di San Pietro in Vaticano.

Indiscusso capolavoro, la Pietà Vaticana fu scolpita nel marmo da Michelangelo non ancora venticinquenne, dal 1498 al 1500. L’opera era destinata alla tomba del cardinale francese Jean de Bilhères, sepolto nella basilica di San Pietro, e poggiava su un blocco di pietra nera.

Il modello, all’epoca, non era ancora molto diffuso in Italia, benché alcune opere molto importanti avevano già fatto la loro comparsa: la Pietà di Cosmè Tura a Ferrara risale al 1460 e sembra essere la prima, mentre a Firenze il soggetto si andava diffondendo grazie ai Della Robbia, al Ghirlandaio e specialmente al Perugino. Soprattutto queste opere fiorentine erano state certamente viste e ammirate dal giovane artista toscano, che nella città medicea aveva trascorso molto anni prima di giungere a Roma. Anche a Bologna, nella chiesa di San Domenico, esiste una Pietà di origine nordica: e in quella chiesa Michelangelo aveva lavorato nel 1495.

Michelangelo, dunque, propone uno schema di base che stava diventando tradizionale; ma, nello stesso momento, lo arricchisce con alcune grandi novità. Anzitutto, allo sguardo dello spettatore, emerge un’assoluta e levigata lucentezza, che, soprattutto quando il gruppo scultoreo era collocato sul blocco scuro, annunziava la vittoria della luce pasquale sul buio della morte e il trionfo della grazia sulle oscure forze del peccato. Poi si nota uno straordinario addolcimento delle forme, con l’assenza di asprezze e spigolosità. L’opera appare come un capolavoro di equilibrio non solo tra la direttrice verticale e quella orizzontale, ma anche tra la semplicità dell’espressione e la ricchezza dei particolari, tra il classicismo monumentale e il sentimento poetico, tra l’impianto statico e la tensione dinamica.

Maria è una donna giovanissima, colta nella sua realtà eterna, in una bellezza assoluta e senza tempo. Sul suo volto dolcissimo non appare alcuna ruga né lacrima, come pure il corpo di Gesù non presenta i segni della terribile sofferenza subita ma solo un lieve accenno alle piaghe. Tutto il dramma è interiore e, se qualcosa di emotivo trapela all’esterno, esso si manifesta nelle tormentate pieghe della veste di Maria. Vista di fronte, la Vergine appare pensosa, assorta nella contemplazione di un disegno; di profilo, invece, sembra quasi una bambina posta di fronte ad una responsabilità che la supera infinitamente. Seduta su una roccia, ella accoglie con estrema delicatezza il cadavere del Figlio. È il primo dono che Dio fa all’umanità nuova: egli dona se stesso in Cristo, in una condizione di totale debolezza. Maria, mentre lo accoglie, a sua volta lo offre: a Dio Padre in atto di adorazione, alla terra per la sepoltura e a noi tutti come invito alla conversione.

Il petto di Maria è attraversato diagonalmente da una fascia. È il riferimento alle mamme dell’epoca, che, soprattutto in Toscana, usavano un simile accorgimento per sorreggere il peso del bambino. In questo contesto essa ci rimanda al mistero della maternità della Vergine e al «peso» di quel Figlio che neanche gli angeli riescono a reggere. In quella fascia compare la firma dell’autore: «Michael Angelus Bonarotus Florentinus faciebat». È l’unica opera firmata dal grande maestro: egli ha voluto consegnare se stesso, e noi con lui, al cuore purissimo di Maria, affinché ella ci sostenga e ci accompagni nel cammino verso la risurrezione.

Nella Pietà Vaticana il vero protagonista non è tanto la tragedia del dolore, come invece tanti secoli dopo farà Mel Gibson nel suo film La Passione di Cristo, ma è l’accettazione della volontà di Dio Padre che nel suo misterioso disegno di amore ha voluto che il Figlio toccasse il baratro dell’annientamento.

Il gesto di Maria è quello dell’affidamento del Figlio e di se stessa a Dio. Il suo esempio ci sia di incoraggiamento per rinnovare con perseveranza il nostro «sì» nel momento della nostra croce.

Il totale abbandono del corpo di Gesù è il segno più eloquente che a salvare il mondo non sarà l’amore del potere ma il potere dell’amore.

                         Vincenzo Francia